Il Modello Strategico CFS
Il Modello Strategico Integrato La Clinica e la Formazione ad approccio Strategico Integrato.
Avete mai pensato perché se siete in macchina e il motore si spegne all’improvviso iniziate ad imprecare ed aggredire il primo che vi capita a tiro, mentre invece se vi accadesse la stessa cosa durante un viaggio in aereo iniziereste a pregare e probabilmente a stringervi forte a lui? Contesti e circostanze diversi generano modalità differenti di vivere esperienze tra loro simili, come quella di un guasto meccanico al motore durante un viaggio. Tuttavia, se qualcuno ci chiedesse quante volte in media premiamo sul pedale del freno o su quello dell’acceleratore mentre ci spostiamo in auto dalla nostra abitazione verso il luogo di lavoro o in qualunque altro posto in cui siamo soliti recarci, probabilmente la nostra risposta sarebbe già nota al nostro interlocutore, ovvero: “E come faccio a saperlo? Lo faccio e basta!”. Del resto sarebbe assurdo prodigarsi in un’operazione del genere mentre siamo intenti piuttosto a pensare a quello che faremo più tardi o che abbiamo fatto poco prima o addirittura nei giorni passati. Una sorta di “economia di pensiero” che il nostro cervello agisce per consentirci di non restare sommersi dalle migliaia e migliaia di operazioni mentali che ogni giorno vengono prodotte dall’interazione con il mondo esterno. Possiamo chiamare questa ridondanza di pensieri e azioni con il nome di “abitudini”. L’essere umano è per natura un abitudinario, cioè ripete le azioni e i comportamenti che gli sono abituali, anche quando non sono più utili allo scopo. Procede adottando in modo pressoché automatico sempre gli stessi modi di fare, perché fanno parte del suo bagaglio di esperienze, che ripropone finanche questi non forniscono i risultati voluti. Perché? Perché in primis è abituato a fare così. In secondo luogo, ciò che guida le persone a reiterare l’attuazione di comportamenti e atteggiamenti disfunzionali non è un freudiano “istinto di morte”, né tantomeno una “propensione geneticamente determinata” alla patologia, quanto piuttosto una cecità mentale al cambiamento, una sorta di illusione di costanza, tradotta nell’impegno ad applicare in maniera rigida soluzioni che in precedenza avevano funzionato per problemi dello stesso tipo, che però in tempi diversi possono divenire pessime soluzioni. Così un comportamento adeguato in una determinata circostanza, può essere completamente inadeguato in un’altra decisamente simile alla precedente. Il problema, dunque, sta nel mettere in atto tentativi di soluzione apparentemente adeguati e soprattutto nell’insistere nella loro applicazione anche di fronte al fallimento. Rigorosamente in linea con questo principio, una delle menti più innovative e geniali che la storia abbia mai conosciuto formulò agli inizi dello scorso secolo la sua definizione di follia, che, considerando la molteplicità degli approcci alla patologia mentale adottata fino ai giorni nostri, auspicò una visione comune alla definizione dei problemi generati dalla mente umana. Parliamo di Albert Einstein, fisico e filosofo tedesco, che oltre ad aver mutato per sempre il modello di interpretazione del mondo fisico, grazie anche al contributo della teoria della relatività, riconobbe con estrema lucidità che nel complesso mondo empirico delle esperienze e dei comportamenti umani la “follia” consiste principalmente nel fare la stessa cosa ed aspettarsi risultati differenti. In molti casi purtroppo questo principio operativo contribuisce ad alimentare e a mantenere un problema piuttosto che a risolverlo. Se ad esempio, proviamo a trasferire questo concetto all’obiettivo di perdere peso e tornare ad essere una “persona magra”, possiamo scoprire con estrema facilità che puntualmente ripetiamo gli stessi schemi, volta dopo volta, anche in assenza dei risultati auspicati. In altri termini, ci mettiamo a dieta, eliminando determinati cibi, pesando sapientemente ogni singolo alimento che portiamo alla bocca, costringendoci ad uno stress che dura fino a che ci definiamo “bravi”, per poi miseramente desistere e tornare punto a capo e, cosa peggiore, ricominciare la volta successiva, quasi ciecamente. Cicli continui di azioni ripetute senza risultati evidenti se non estemporanei. Copioni ridondanti quindi, che si sposano perfettamente anche con la famiglia dei disturbi d’ansia e di panico, in cui il tentativo di evitare la paura scaturita dall’idea di trovarsi in situazioni minacciose e restarne “intrappolati” fino a perdere il controllo o a credere di poter morire per il terrore avvertito, impediscono alla persona di affrontare il vero problema, che non è più reale quanto piuttosto l’inevitabile conseguenza della percezione di non poter far nulla per risolverlo, fino a subire, nelle forme più gravi di agorafobia, l’angoscia di contatto con il mondo al di fuori delle rassicuranti mura domestiche, divenute in poco tempo una vera e propria prigione. Ed ecco che l’ansia anticipatoria e la paura della paura generano un muro di gomma su cui, quasi ciecamente, la persona infrange, in modo sistematico, le proprie speranze di liberarsi dal problema e iniziare a stare meglio. Questa ridondanza di percezione-reazione-azione-convinzione, che si concretizza in tentativi di risolvere il problema (tentate soluzioni) evidentemente fallimentari, è oggetto d’indagine iniziale della Terapia Breve ad Approccio Strategico Integrato, che consiste proprio nell’individuazione di quei comportamenti chiaramente indicativi del modo con cui la persona si rapporta con la propria realtà; quindi, delle strategie che la persona ha utilizzato fino a quel momento nei casi in cui si è trovata a dover far fronte ad una difficoltà, sia essa personale, relazionale o professionale. Tale scelta metodologica è sostenuta dal fatto che, nei casi in cui la strategia considerata risolutiva non funzioni come ci si aspettava, la persona tende ad intensificare ulteriormente i propri sforzi in quella direzione, convinta che la sua soluzione migliore (più logica e più ovvia!) necessiti, con molta probabilità, esclusivamente di un impegno ulteriore da parte sua. Ma più si applica questa strategia, più la difficoltà iniziale sembra non solo non risolversi, ma addirittura complicarsi, trasformandosi in un vero e proprio problema strutturato. Come afferma Paul Watzlawick (1988), “quando un tentativo non produce il risultato sperato, noi tutti, uomini o animali, applichiamo la ricetta dell’infelicità che prescrive una quantità sempre maggiore della stessa cosa aumentando così in misura sempre maggiore lo stesso dolore …”. Pertanto, gli sforzi che la persona compie in direzione del cambiamento diventano paradossalmente i pilastri su cui si erige la persistenza del problema. Solitamente note come tentate soluzioni, queste iniziali “buone intenzioni”, tradotte poi in comportamenti del singolo e molto spesso sostenute dai comportamenti delle persone a lui vicine, finiscono con lo sviluppare una radicata sfiducia nella possibilità di un cambiamento della propria situazione problematica. Di fatto, le migliori intenzioni di parenti, amici, colleghi o partner nel cercare di risolvere il problema, allontano il momento effettivo di “abbandono” della direzione perseguita in vista di una “svolta” più funzionale e risolutiva. Del resto è noto quanto sapientemente declamato da Oscar Wilde: “È sempre con le migliori intenzioni che si producono i risultati peggiori”. La realtà che ognuno di noi percepisce, i problemi che si creano e le patologie che si formano, sono quasi sempre il frutto delle modalità con le quali ognuno di noi si rapporta alla realtà che percepisce e che poi subisce (Salvini, 1991). Secondo un approccio costruttivista infatti non esiste una “unica” e “vera” realtà, ma tante quante sono le nostre interazioni con tutto ciò che ci circonda. L’illusione più pericolosa consiste proprio nel credere che esista soltanto la nostra percezione esclusiva del mondo, e in questa prospettiva i disturbi mentali sono il risultato di un modo “disfunzionale” di percepire e reagire a quella realtà che noi stessi, con le nostre azioni, ci siamo costruiti. Del resto se all’interno di tale processo cambiano le nostre percezioni e le nostre reazioni, “coerentemente” cambieranno anche le nostre resistenze. Lo stesso Albert Einstein grazie ai suoi importanti studi sulla fisica giunse al convincimento che: “Ciò che vediamo dipende sempre dalle teorie che utilizziamo per interpretare le nostre osservazioni”. Pertanto, condurre ad esperire, mediante stratagemmi e raffinate forme di suggestione (nuove percezioni della realtà) arresterà quel sistema circolare che rende persistente il problema e produrrà al contempo un concreto cambiamento nella sfera comportamentale, cognitiva ed affettiva di ognuno di noi. La storia clinica del paziente diventa in questo modo un mezzo strategico per risolvere il problema analizzando “come” quel dato sistema umano abbia costruito il problema e persista nel mantenerlo e, in conseguenza, “come” determinare e applicare strategie di intervento capaci di produrre rapidi e risolutivi cambiamenti in tale sistema. La ri-soluzione strategica in tempi brevi dei problemi individuali, di coppia e di famiglia è applicabile anche a contesti interpersonali più ampi, e non solo clinici, come quelli sociali, educativi e aziendali. Le origini della terapia strategica risalgono alla teoria della comunicazione nata in campo antropologico con Gregory Bateson, agli sviluppi costruttivisti della epistemologia cibernetica (Heinz von Foerster, Ernst von Glasersfeld) e agli studi sull’ipnosi e sulla suggestione di Milton Erickson. Si deve poi a Paul Watzlawick e al Mental Research Institute di Palo Alto l’opera di approfondimento e sistematizzazione dei principi teorico-applicativi della comunicazione nei suoi aspetti pragmatici e terapeutici. Appare dunque lapalissiano, come, da un punto di vista strategico, nel cercare di cambiare una situazione problematica non sia strettamente necessario svelarne le cause originarie (aspetto sui cui, peraltro, non si avrebbe più alcuna possibilità di intervento), quanto piuttosto lavorare sulle modalità con cui questo si mantiene nel presente, grazie alla ridondante ripetizione delle tentate soluzioni adottate. Motivo per cui il terapeuta strategico si focalizza fin dal principio sul presente piuttosto che sul passato, su come funziona il problema, piuttosto che sul perché esista, sulla ricerca delle soluzioni piuttosto che delle cause. L’integrazione delle componenti della Comunicazione Efficace Strategica©, sviluppata da Ivano Cincinnato, con quelle della comunicazione più spontanea, quella del linguaggio del corpo e del non verbale, e pertanto meno ingannevole ai fini della comprensione del problema, arricchiscono ulteriormente il ventaglio delle possibilità di intervento della Terapia Breve ad Approccio Strategico Integrato per lo sblocco in tempi brevi della ciclicità disfunzionale su cui si erigono la maggior parte dei problemi umani. Nella comunicazione umana spesso i gesti, le espressioni del volto, i toni di voce contraddicono quanto viene affermato con le parole. Per cui, in molti casi di disagio psichico, i messaggi non verbali della persona contraddicono quelli verbali, cosa peraltro comune in un contesto nuovo e sconosciuto come il setting terapeutico, in cui è facile avvertire inizialmente la difficoltà di esprimere apertamente la propria sofferenza. Il disagio viene allora veicolato con espressioni del volto (solitamente micro-espressioni facciali (FACS)), gesti di rassegnazione o di tensione muscolare, occhi al cielo o sgranati e impauriti, toni di voce, ecc. Indicatori posturali ed emblemi gestuali possono comparire sia negli adulti che nei bambini e negli adolescenti, che se riconosciuti ed interpretati prontamente possono svelare eventi, idee, sentimenti latenti e persino bugie, omissioni o dissimulazioni(quest’ultime molto frequenti nelle terapie familiari durante l’incontro con tutti i membri della famiglia del “paziente designato”), determinanti ai fini dell’efficacia e, soprattutto, dell’efficienza dell’intervento terapeutico breve. Di fatto, non esistendo determinate condizioni che senza eccezioni conducano a determinati effetti, l’efficacia dell’intervento strategico integrato risiede nella sua natura prevalentemente attiva e interattiva, nonché prescrittiva, che emerge sin dalla prima seduta e si focalizza sulle modalità comunicative con cui la persona porta e presenta il suo problema. E’ l’irrigidirsi e il ripetersi delle modalità interattive nelle relazioni tra soggetti, o tra il soggetto e se stesso, che conduce all’insorgere di patologie, in quanto effetto di complicate interazioni e non di semplici precondizioni. Pertanto condividere e contemporaneamente guidare e condurre la persona ad abbandonare la posizione originaria rigida e disfunzionale (che si esprimeva nelle tentate soluzioni e nell’espressione delle emozioni guida) per abbracciare una prospettiva più elastica e funzionale, che consenta maggiori possibilità di scelta, è l’obiettivo in tempi brevi della Terapia Breve ad Approccio Strategico Integrato. Un percorso terapeutico breve, che si occupa da una parte di eliminare i sintomi o i comportamenti disfunzionali per i quali la persona è venuta in terapia, dall’altra, di produrre il cambiamento delle modalità attraverso cui questa costruisce la propria realtà personale e interpersonale per viverla e non più subirla. |